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Sogni e bulloni saltati. In una parola: "Equilibrio". La mostra di Müller

di Italo Moscati
  61. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica
Data di pubblicazione su web 28/08/2004  
La conferenza stampa della Mostra del cinema di Venezia va in scena da qualche anno a questa parte al rinnovato Hotel Excelsior di via Veneto, una via dove non c'è pìù la Dolce Vita e va in onda ogni sera regolarmente la Roma dello sbadiglio veterotrasgressivo. Per questo motivo, in un contesto che più tradizionale e similmondano non si potrebbe immaginare, ha fatto un certo effetto assistere ad una conferenza stampa con centinaia di giornalisti di vario stampo, competenza e compromissione, in cui ad un certo punto si è sentita una parola magica, forse la parola d'ordine della nuova Mostra diretta da questa edizione da Marco Müller. Mai era accaduto. Né con l'elegante e misurato Alberto Barbera né con Moritz De Hadeln; quest'ultimo tenne paradossalmente a dire ai giornalisti che lui sotto la giacca portava il giubbotto antiproiettile, non solo forse perché temeva di essere preso al bersaglio ma perché con lo stesso giubbotto aveva partecipato all'assalto della Mostra diretta da Barbera, costretto ad andarsene per lasciargli il posto.

La parola magica udita nella conferenza stampa all'Excelsior, è una di quelle che programmaticamemente con fanno male a nessuno, ma sono ricche di sottointesi: "Equilibrio". A pronunciarla sono stati il nuovo presidente della Biennale Davide Croff, subentrato a Franco Bernabè, e soprattutto, in modo netto e chiaro, con una sfumatura di ironia, il nuovo direttore Müller. L'ironia di Müller era di quelle materia che sembra sottintendere una certa presa di distanza, anzi è stato proprio così poiché il direttore ha tenuto a precisare che con la parola e in particolare con "l' Equilibrio", inteso come senso delle scelte, lui non ha mai avuto nulla o poco da spartire. Fino ad appena ieri.

In effetti, è vero. Müller ha una storia complessa alle spalle, molto più complessa rispetto ai suoi predecessori a Venezia, compreso quel De Hadeln di cui ha preso il posto e che ha in comune con Müller solo il fatto di essere stato prima di lui il direttore del Festival di Locarno, festival che abbandonò per diventare il gran capo di un festival di maggior prestigio: quello di Berlino. A proposito di rassegne e di ronde di direttori. Se sono vere le voci che corrono, pare che Locarno possa diventare il luogo dove si fanno, diciamo così, le prove per Venezia. In nome sia del precedente della staffetta che si è verificata, a distanza di anni, tra De Hadeln e Müller; e sia perché queste voci dei più informati , o pettegoli, assicurano che se l'ultimo arrivato, appunto Müller, dovesse fallire, e se soprattutto certi equilibri (riecco la magica parola) politici di governo dovessero cambiare alla Mostra potrebbe andare Irene Bignardi che si sta facendo onore a Locarno. Cose o equilibri di cosa nostra.


Ovunque sei (Michele Placido)
Ovunque sei (Michele Placido)
 
Chiusa la parentesi. Torniamo a Müller. Che, come hanno scritto i biografi entrati subito in azione, conosce molte lingue, ivi incluso il cinese per avere studiato nelle università di quel grande paese; che vanta, oltre a Locarno, esperienze alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e alla rassegna di Rotterdam; che ha diretto nella Fabrica di Benetton e di Oliviero Toscani la sezione cinema; e che, infine, è diventato produttore, firmando alcuni film premiati in giro per il mondo, film provenienti da cinematografie cosiddette minori o laterali rispetto a Hollywood, Cinecittà e via centralizzando.

Un curriculum valido, al punto che Tullio Kezich, critico del "Corriere della Sera", solido esperto, collaboratore di Luigi Chiarini alla Mostra negli anni della contestazione del 1968, ne ha tratto motivi di compiacimento, rilevando con una punta di veleno che c'è voluto un governo di centro-destra per accorgersi di un simile talento in circolazione e quindi, in sostanza, rimproverando il centro-sinistra di essere meno veloce e attento nel selezionare i nomi da porre a capo di una importante manifestazione come Venezia senza farsi abbacinare da candidature di rigido schieramento.

Ci vorrebbe a questo punto un'altra parentesi. Per dire che almeno una conferma la Mostra veneziana continua a darla: essendo legata a finanziamenti governativi e delle istituzioni pubbliche coerentemente con le sue origini (la Mostra nacque nel 1932 durante il regime fascista) le sue sorti sono in modo stretto collegate ad una dialettica politica, anche se negli anni molto è cambiato rispetto al periodo del partito unico mussoliniano. I partiti, spesso anche quelli della opposizione, sono coinvolti nelle scelte, soprattutto quando a Roma c'è un governo che deve fare i conti con le realtà locali spesso sostenute da poteri di diverso colore. Basti questo per precisare che i ragionamenti sulla Mostra e sui suoi mutamenti e percorsi sono sotto i riflettori non tanto o soltanto del cinema quanto della politica e dei suoi equilibri, ancora e sempre. E quindi anche l'edizione del 2004 i giochi, non necessariamente spregevoli, sono dentro la politica, sono anzi la politica.

Allargo la parentesi per aggiungere che De Hadeln, voluto dal consiglio di amministrazione presieduto da Bernabè, è stato contestato, non sempre silenziosamente, da esponenti del centro-destra se non addirittura dal centro-destra in quanto tale. Uno dei motivi - si diceva - era costituito dalla premiazione del film Magdalene di Peter Mullan sul convento di suore in Irlanda in cui avvenivano gravi fatti di persecuzione a spese della ragazze colpevoli di avere peccato carnalmente. Il Leone d'oro, attribuito al forte film, scatenò le ire di un membro del consiglio di amministrazione, Valerio Riva, collaboratore del "Giornale". Si accusava velatamente il direttore di non essersi fatto sentire dalla giuria internazionale per evitarlo.


Terminal (Steven Spielberg)
Terminal (Steven Spielberg)
 
Accuse rinnovate a De Hadeln anche l'anno dopo, lo scorso anno, perché il film di Marco Bellocchio Buongiorno notte, dedicato alla vicenda Moro, non era entrato nella rosa dei premiati principali. La Rai, nella persona dell'amministratore delegato Giancarlo Leone di RaiCinema, arrivò a minacciare che l'azienda non avrebbe più mandato i suoi film a Venezia. Per fortuna, una minaccia poi rientrata. Leone si riprese virtualmente il Leone d'oro con la pubblica ammissione di avere ecceduto nelle reazioni di disappunto. Insomma, a Venezia il cinema è costantemente monitorato dalla politica e le polemiche rivelano o nascondono retroscena che riguardano i rancori, le risse, i magoni, le mire di potere più che i film, le idee, la produzione, il mercato, i veri problemi di un cinema non solo italiano che non può essere quello di prima, quello degli anni Trenta o Cinquanta o Sessanta o Settanta - quando era indiscutibilmente vivo, discutibile, capace di coinvolgere il grande pubblico e il giornalismo o la critica più sensibili -, ed invece è oggi una vecchia macchina dei sogni ai quali sono saltati bulloni e sogni. Sogni che sono diventati incubi: l'incubo di scomparire o di non essere più l'arte sovrana dell'immagine, della fantasia, della comunicazione com'era nel Novecento, il vicino secolo scorso.

In questo senso, è comprensibile che nell'ambiente del cinema contrassegnato spesso da squilibri e da squilibrati il buon Müller ha accettato di usare la parola magica: Equilibrio. La sua storia non è fatta di settarismi ideologici o cinefiliaci, e tuttavia la sua attenzione per il cinema, anzi i cinema della Cina e del Terzo o Quarto Mondo, e per le varie forme di alternatività nei piccoli grandi festival che ha diretto o con cui ha collaborato, lo colloca o lo collocava su una piattaforma che nel tempo si è ben delineata.

Questa piattaforma, in sintesi, è rappresentata proprio da una quantità di rassegne e manifestazioni - anch'esse in genere finanziate da enti pubblici e dal ministero dei beni culturali - che hanno negli anni tessuto una stoffa multicolore eppure fortemente e non casualmente coerente. A Pesaro, Locarno, Torino, e via via via enumerando i festival cosiddetti minori rispetto a Cannes, Venezia o Berlino, vanno in scena gli scampoli dell'altra faccia della situazione del cinema oggi.

E' la faccia del cinema degli autori, dei registi e degli attori emarginati o laterali, dei film che poi non circolano siano essi diretti da giovani italiani (pellicole prodotte con soldi pubblici che non trovano distribuzione), oppure siano delle opere prime o seconde, delle opere e dei documentari che arrivano dai lontani angoli del mondo. E' la faccia che si deve al lavoro di critici e di gente di cinema che si è rimboccata le mani fra gli anni Sessanta e Ottanta per cercare di raccogliere le polemiche godardiane contro il cinema di papà di Hollywood, Cinecittà, Mosfilm (che non c'è più), Pinewood a Londra; e per lanciare, inventare una corrente di novità e di proposte culturali e produttive (il basso costo) in grado di aprire una realtà inedita, una realtà buona per accelerare la crisi del vecchio cinema o per preparare almeno una sorta di "entrismo". Ovvero, un'azione fatta ugualmente di contestazione e di proposta destinata in prospettiva a sostituire l'esistente ereditato, promovendo autori, produttori, organizzatori di festival, critici, giornalisti.


5 x 2 (François Ozon)
5 x 2 (François Ozon)
 
E a questo punto, mi si perdoni, sarebbe utile un'altra parentesi. Una parentesi che dovrebbe o avrebbe dovuto riflettere meglio sulla scomparsa di un critico, organizzatore, docente universitario, direttore della Scuola di Cinema (l'antico Centro sperimentale di Cinecittà). Si tratta di Lino Miccichè, che se n'è andato senza che nessuno abbia tentato di imbastire un principio di ragionamento sul ruolo che persone come lui, e come altri critici della sua generazione e più giovani, hanno avuto nel disegnare la faccia di cui si diceva. Forse si arriverebbe a scoprire che, al di là degli indiscutibili meriti di un attivismo in nome di una alternativa sia pure non facile, abbiamo bisogno di un bilancio serio di questi generosi tentativi, senza nascondersene i limiti.

Limiti tutti da analizzare e comunque clamorosi nel senso di alcune domande che rimangono aperte. Ad esempio: la politica degli autori, fatta propria da chi sta consumando un "entrismo" ormai fiacco o addirittura liquefatto da burocrazie capaci di assorbire e di utilizzare ogni segno di vita pur di non abdicare, ha costretto cinema sovvenzionato e parte delle tv (Rai e Mediaset) a sfornare debuttanti abbandonati poi a se stessi. Ancora: i vecchi produttori non ci sono più, Goffredo Lombardo fa fiction di grande successo per le tv; al loro posto c'è una fioritura di produttori che non rischiano o rischiano pochissimo contando su finanziamenti sempre del ministero o delle tv, produttori spesso fintamente indipendenti mentre ce ne sono alcuni (Roberto Cicutto e Luigi Musini, Tilde Corsi, Domenico Procacci e pochi altri) che sono riusciti almeno a darsi una fisionomia, si spera non labile, e a non andare a rimorchio di scelte fatte quasi unicamente dalle solite centrali istituzionali di potere tra cinema e fiction. Ciò mentre rullano i tamburi e i gonfaloni delle sempre più numerose film-commission comunali e regionali, nuove e lodevoli iniziative per agevolare le produzioni e assisterle, sperando che non vengano ben presto devastate dai politici trombati in cerca di poltrone o lasciate alle forze di opposizione affinché si dannino nel marketing e nella caccia agli sponsor.

Infine, parlando di fiction, la piovra fatta di incantesimi e orgogli: questa fiction sta succhiando le poche risorse disponibili del cinema e ha ormai conquistato un mercato che praticamente occupa l'intera sfera dell'intrattenimento. E infatti i generi comici o di commedia che facevano grande il cinema italiano popolare sono stati sbaragliati e vengono fuori nelle notti di Natale, accanto alla capanna del bambin Gesù.

Di fronte a una così massiccia problematica, il direttore Müller è stato costretto, anzi sostanzialmente ricattato dalla necessità di parlare di Equilibrio e di farne il motore del suo programma. Si trattava per lui, nuovo e desideroso di far bene, voglioso peraltro di ottenere l'apprezzamento pubblico da tutti coloro che in alto hanno dato il nulla osta alla sua direzione, di cominciare senza strappi la navigazione in mezzo a burrasche e a bonacce, in una situazione complessiva che ho tentato di descrivere, una situazione senza punti di riferimento visibili e credibili.


La principessa del monte Ledang (Saw Teong Hin)
La principessa del monte Ledang (Saw Teong Hin)
 
Nei tre mesi che gli sono stati concessi - dopo le forti obiezioni e proteste di Riva a proposito di un conflitto di interessi aperto con la nomina di Müller, direttore e nello stesso tempo produttore - il successore di De Hadeln ha fatto i salti mortali e non si è fatto male. Ha scelto oculatamente i suoi collaboratori: giornalisti delle testate più importanti, critici di riviste specializzate ma non troppo nella cinefilia, programmisti televisivi à la page, andando anche incontro a quelli che sono i desideri e le ambizioni delle numerose lobbies che vivono davanti e dietro le quinte del cinema, occupano posti nella comunicazione, "fanno opinione", coprono a destra e a sinistra, sono ormai tradizionali e spesso coperti terminali dei partiti.

Ne è venuto fuori un cartellone trasudante titoli e preoccupazioni di non scontentare nessuno o il minor numero di suscettibilità possibili : 170 lungometraggi , 40 più dello scorso anno. Ci sono numerose sezioni: i fuori concorso, Mezzanotte per i divi e nottambuli, le Giornate degli autori (una sorta di Quinzaine ispirata a Cannes), Orizzonti per le scoperte e le innovazioni, il Cinema Digitale, una Storia segreta del cinema italiano con Quentin Tarantino come padrino, I corti, i cortissimi, eccetera, eccetera. Nessuno potrà dire di non essere stato interpellato, lusingato, magari anche respinto ma sempre in nome di un Equilibrio molto equilibrato, segno di assennatezza e di nessuna voglia di rompersi la testa. Se è vero che il cinema a macchia di leopardo è sempre stato di casa a Venezia da molti anni a questa parte, l'edizione 2004 va al di là di cifre e remore. Ci sono i grandi nomi americani (Steven Spilberg aprirà con The Terminal), quelli italiani (Gianni Amelio con Le chiavi di casa, tratto dal romanzo di Giuseppe Pontiggia), e poi Wim Wenders, Mike Leigh, Todd Solondz, Jonatham Demm, Spike Lee, e via via un gotha in cui s'inseriranno gli attori famosi come Tom Hanks, Meryl Streep, Denzel Washington, Tom Cruise, Al Pacino…

Bisognerà avere l'abito da sera per le proiezioni pubbliche in sala grande; ci saranno riti di passerelle e spettacolari scenografia a cura di Dante Ferretti, l'ideatore-costruttore tra le sue mille altre cose della New York di Cinecittà per il film di Martin Scorsese, Gangs of New York; non mancheranno le personalità della politica, le belle signore, i pettegoli di turno. Insomma, un ponte in Equilibrio sulle scivolose acque del Lido e del cinema che non si sa bene più dov'è e comunque lo si cerca qua e là nel mondo, curiosamente, forse come i cacciatori di farfalle degli antichi viaggi nelle zone sperdute del mondo.

Un'ultima parentesi. Fateci caso. I festival continuano a fare con i direttori e il corteo gli Equilibristi, eppure mai come oggi si nota una passione persino smodata per i restauri, i recuperi, i ritrovamenti, gli spezzoni, gli inediti, i tagli, i ritagli: dieci secondi degli anni Trenta assumono il valore della Gioconda. C'è in giro, insomma, una gran bramosia di museo, di archivi scoperchiati e si spera non di troppe tombe anche se sembra finita l'epoca degli zombies sugli schermi perché zombies di vario tipo si mescolano a noi, e noi forse siamo zombies che prendono la valigia per il Lido e non ce ne accorgiamo.

Toc toc. Chi è? Siamo noi, gli zombies. Parola d'ordine? Equilibrio. Passate pure, il loculo è stato riverniciato.




 
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