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Il filosofo all'opera

di Laura Bevione
  Il candelaio
Data di pubblicazione su web 01/06/2001  

Un meccanismo scenografico imponente e composito sostituisce il tradizionale palcoscenico con un labirinto di porte poste su più livelli e completato a tratti da ulteriori elementi significativi, un banco di scuola o gli alambicchi dell'alchimista, la testiera di un letto o, sempre presenti, gli orologi. Una struttura suggestiva, movimentata da un nutrito gruppo di macchinisti che ne spostano parti, fanno spalancare le porte, corrono via con letti e scale praticabili, distendono e sollevano teli candidi. Gli attori appaiono da botole e usci, entrano ed escono dalla scena attraverso le scale e le passerelle che incorniciano la costruzione, ne abitano nicchie o zone sopraelevate, la percorrono correndo e saltando per vincerne i dislivelli.

L'ampiezza e la varietà della scena consentono di trascorrere senza soluzione di continuità da un luogo all'altro e da una vicenda all'altra, così da "disciplinare" l'irregolarità della commedia di Bruno, un unicum stratificato ed eccessivo nel repertorio di un Rinascimento che già trapassa in Barocco. Tre trame, tre beffe volte a punire un'errata valutazione delle proprie qualità e delle proprie conoscenze, si intersecano e si risolvono con una sconfitta (anche tragica nel caso di Bartolomeo, che sceglie il suicidio) che smentisce il modello tradizionale della commedia cinquecentesca con il suo canonico lieto fine e la restaurazione dell'ordine violato. L'universo dipinto da Bruno (che sceglie, appunto, come proprio alter ego nella commedia un pittore, Gioan Bernardo, tessitore di una delle trame e commentatore delle vicende) è retto da leggi contrarie alla razionalità e alla lucentezza rinascimentali, un mondo dominato dalla pazzia e da quell'ignoranza di sé che produce il riso e giustifica in qualche modo gli autori della beffa.

L'imponente costruzione scenografica rivela allora la sua reale valenza, aldilà dell'indubbio fascino spettacolare, e non si propone unicamente come rimando ai labirintici quartieri napoletani in cui la commedia è ambientata, bensì diviene correlativo visivo di quella sovversione dell'ordine costituito messa in scena da Bruno. E non solo: essa oggettivizza anche la struttura drammaturgica a incastro escogitata dall'autore che alla linearità rinascimentale sostituisce un fitto intrecciarsi di eventi e personaggi, anch'essi incaricati di funzioni diverse a seconda della trama in cui si trovano ad agire in quel particolare punto della commedia. Così Bonifacio, patetico autore di ridicoli sonetti amorosi d'ispirazione petrarchesca indirizzati alla prostituta Vittoria, schernisce con lucido cinismo le rivendicazioni di Marta, trascurata e maltrattata dal marito Bartolomeo. E quest'ultimo, beffato per la sua assurda pretesa di ottenere l'oro per mezzo dell'alchimia, brutalmente irride la passione di Bonifacio.

Questa pluralità di funzioni drammaturgiche costringe gli attori a ricorrere a registri recitativi anche opposti: ciò vale per Massimo De Francovich/Bonifacio e Giovanni Crippa/Bartolomeo ma anche per Laura Marinoni/Carubina e Anna Gualdo/Marta. In una commedia essenzialmente "maschile" le donne - Carubina, la giovane e bella moglie del fedifrago "in potenza" Bonifacio, l'astuta e previdente Vittoria, Marta e Lucia, mezzana accorta ed esperta - non abitano un microcosmo retto da logiche alternative alla follia degli uomini, bensì ne condividono comportamenti e ragionamenti. Alla tormentata Carubina, una Laura Marinoni dalla sicura presenza scenica, sono sufficienti poche e semplici argomentazioni per accettare le profferte amorose di Gioan Bernardo e tradire senza troppi rimpianti o scrupoli il marito; mentre la Vittoria di una Galatea Ranzi allo stesso tempo fanciullesca e scaltramente seduttiva, inanella un proverbio dopo l'altro per convincersi della necessità di mettere al sicuro il proprio futuro.

La Marta di una Anna Gualdo convincentemente mortificata trova con facilità chi le dia quei piaceri che il marito ora si rifiuta di offrirle; e Manuela Mandracchia disegna una Lucia sottilmente intrigante e resa scafata dalla miseria e dalla fame. La mezzana Lucia e il capo del gruppo di mariuoli Sanguino/Riccardo Bini sono gli unici personaggi cui il regista attribuisce uno spiccato accento dialettale, al fine di sottolinearne l'appartenenza non soltanto a una precisa classe sociale ma, più significativo, a un particolare universo mentale, pragmatico e terragno, con priorità bassamente fisiologiche quali la fame e il sesso e tuttavia più genuino e paradossalmente più onesto.

In evidente opposizione è il personaggio del maestro di scuola Manfurio, interpretato da un Mauro Avogadro che ci ha ricordato di avere doti e preparazione di attore tali da auspicare un suo ritorno a questa attività negli ultimi anni trascurata, e senza troppo successo, per la regia. Manfurio parla un latino stravolto e buffo che lo condanna a non essere compreso e ne fa la vittima di scherzi per eccellenza. La burla che lo vede coinvolto, tuttavia, è l'unica della commedia priva di conseguenze: a differenza degli altri due "beffati" Bartolomeo e di Bonifacio, il maestro non modifica la propria vita bensì continua a risiedere nel proprio autistico mondo di non comunicazione, quasi che Bruno ritenesse la pedanteria un male talmente radicato da non essere più estirpabile. A Manfurio, poi, l'autore affida il compito di concludere la commedia, rivelando la finzione scenica e tornando a mischiarsi con quel pubblico cui egli, come gli altri personaggi, ha fornito uno specchio.

La vicinanza fra attori della commedia e spettatori ipotizzata da Bruno è ripresa anche da Ronconi, che ha voluto un ingegno scenografico che, oltre alle caratteristiche già indicate, invade letteralmente la platea. La rottura delle convenzioni del tempo operata da Bruno (e, non a caso, la sua commedia non fu allora mai rappresentata e il primo allestimento risale addirittura al 1968) è riflessa dalla scelta di infrangere l'illusione teatrale assicurata dall'arco di proscenio e di avvicinare "drammaticamente" interpreti e pubblico. Il regista è fedele dunque alle intenzioni e alla poetica così come al testo del filosofo nolano, di cui svela apertamente il travestimento sotto le spoglie del pittore GioanBernardo.

A Luciano Roman, solido interprete di questo personaggio, Ronconi affida l'apertura dello spettacolo, con la recita della lettera dedicatoria alla signora Morgana, in cui Bruno presenta sé stesso e la propria commedia. Il regista attribuisce a ciascun personaggio un'individualità precisa e riconoscibile ed è consistentemente aiutato a concretare il proprio progetto da un gruppo di attori dalla sicura professionalità. Le creature di Bruno diventano tessere di un mosaico di colori e di idioletti in cui convivono poveri e ricchi, furfanti e pedanti, donne d'onore e meretrici, accomunati tutti da un'etica che non è più tale, bensì una "recita" di essa, per cui Sanguino può assumersi legittimamente il ruolo di giudice.

Ronconi affianca ai personaggi principali una folta schiera di giovani, un "coro" per nulla oggettivo e mosso secondo dinamiche proprie dello spettacolo lirico. L'intera messa in scena, d'altronde, risente di questa impostazione che definirei "operistica" e che rallenta consistentemente il ritmo dell'azione. La violenza della prosa di Bruno e il realismo, spesso brutale, delle immagini e delle situazioni, perdono le loro immediatezza ed efficacia, compromesse da una certa meccanicità che, pur elegante, tradisce l'intento fortemente polemico del filosofo, condannato al rogo cinque secoli fa per la "spudorata" nudità senza compromessi delle proprie convinzioni.


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