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Venticinque piccoli impiegati

di Giulia Tellini
  Giorgio Pasotti
Data di pubblicazione su web 07/09/2004  
Oltre ad essere una agghiacciante riflessione sulla incompatibilità fra ragioni umane e di mercato nell'ambito di una multinazionale il cui invitante motto è "People First", il film di Eugenio Cappuccio (fra le altre cose, aiuto regista di Fellini in Ginger e Fred) dà all'eclettico Giorgio Pasotti (che da occidentale "cattivo" in film giapponesi di arti marziali è arrivato ad essere lo stralunato emulo di Keaton nella recente chicca Dopo mezzanotte) l'occasione di esibirsi in un difficile saggio recitativo. Il personaggio del giovane manager Marco Pressi, martire del dovere e ferreo osservatore della massima "niente progetti, solo obiettivi" è però probabilmente peggiore di quanto Pasotti non si sforzi di presentarlo. 

Giorgio Pasotti
 
Sorta di moderna variazione sul tema dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, il film - imprigionato in una incalzante struttura quasi claustrofobica - mostra il protagonista, novello giudice Quincannon, alle prese col suo attuale obiettivo: se vuole mantenere il posto, deve licenziare nel giro di tre mesi venticinque dipendenti su novanta. Il simpatico e benvoluto Marco, addetto alla formazione professionale del perfetto impiegato, si trasforma per tutto il reparto in un "killer". Carriera e vita privata si intrecciano finché la prima, che lo ossessiona e lo costringe ad agire contro natura, non condiziona irreparabilmente la seconda: il successo della prima è infatti inversamente proporzionale all'equilibrio individuale dato che comporta un logoramento della propria immagine. L'unico errore del regista è forse quello, inutilmente banalizzante, di aver voluto comunicare al pubblico la condizione di disagio del protagonista coinvolgendolo in nervose scene di sesso - se non sono necessarie se ne può volentieri fare a meno.

L'uno dopo l'altro i venticinque "condannati" sfilano (e sono forse questi i momenti più interessanti del film) davanti al viso rassicurante e "da bravo ragazzo" del loro "inquisitore": col passare dei giorni, l'apparentemente sicuro e inossidabile Marco comincia ad atrofizzarsi umanamente e a ripetere come un automa le stesse frasi, che era abituato a rivolgere come complimento ai colleghi, fino a svuotarle del tutto di significato (riesce a rifilare il tormentone "ti stimo molto" perfino alla sua ragazza e alla madre).

Giorgio Pasotti
 
La sfida autodistruttiva, trasformandolo da "buono" in "cattivo", lo raffredda e lo indebolisce come persona ma ne rafforza lo spirito competitivo e l'abilità manageriale. E' indicativa la scelta di un attore come Pasotti da parte del regista: Marco, che non viene considerato né una vittima né un carnefice, sceglie di sacrificare la propria vita privata (cui non ha mai dato troppo peso a giudicare dalla cinguettante fidanzata Laura) sull'altare della vittoria professionale. Può irritare o meno. Anche il finale strizza l'occhio all'archetipico romanzo di Agatha Christie.

Volevo solo dormirle addosso
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