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Lettera di un'innamorata perplessa

di Laura Bevione
  Gabriele Vacis
Data di pubblicazione su web 12/03/2002  
Qualche giorno fa Gabriele Vacis ha inviato una lettera alla stampa per illustrare la propria versione dei fatti a proposito delle dimissioni di Massimo Castri dallo Stabile di Torino. Fra le ragioni addotte dal regista toscano per motivare il proprio abbandono vi era stato anche il rifiuto di condividere con Vacis la direzione artistica del teatro torinese. Il progetto presentato dal consiglio d'amministrazione dello Stabile prevedeva infatti la suddivisione delle varie mansioni proprie del direttore fra tre persone diverse: una che si occupasse degli aspetti amministrativi più pragmatici così da concedere agli altri due "colleghi" il tempo e la libertà mentale necessari per dedicarsi ai contenuti artistici: in particolare Castri si sarebbe dovuto dedicare a produzioni e ospitalità che, semplificando molto, potremmo definire "tradizionali", mentre Vacis avrebbe curato il "settore innovazione" incentrato sulla sperimentazione e sulla ricerca di nuovi linguaggi. Alla base di questa riorganizzazione della gestione dell'istituzione torinese vi è un altro progetto, redatto nel dicembre 2001: questo prevede l'accorpamento di Teatro Settimo da parte dello Stabile: quest'ultimo "acquisirebbe il ramo d'azienda del Laboratorio Teatro Settimo che riguarda la produzione, la distribuzione e l'organizzazione teatrale, comprese le attività pedagogiche e sul territorio" e tuttavia "si manterrebbe la struttura produttiva del Laboratorio Teatro Settimo, garantendole autonomia e continuità artistica". Questo piano ha suscitato non poche polemiche, in primo luogo sulle reali motivazioni dei due contraenti: un modo dignitoso per appianare i debiti per la compagnia di Vacis e una comoda giustificazione per richiedere ulteriori finanziamenti da parte dello Stabile. È ovvio che si tratta di una maniera ben superficiale di commentare una situazione che presenta al contrario una intricata complessità che coinvolge non soltanto interessi economici ma da una parte sottili manovre politiche e dall'altra necessità pratiche e desiderio di crescita (sto semplificando anch'io ma i nodi sono davvero tanti e molto stretti e scioglierli risulta difficile agli stessi soggetti in questione). Spinto dalla volontà di affermare almeno il proprio punto di vista, Vacis spiega come il progetto di accorpamento si inserisca in una più generale politica di razionalizzazione della frammentaria realtà teatrale piemontese, promossa in particolare dall'assessore comunale alla cultura Fiorenzo Alfieri che ha voluto la creazione di un Centro Servizi destinato a coordinare le compagnie più piccole e fornire loro assistenza. A proposito di questo ridisegno della scena torinese il regista dichiara: "Ora: io non so se il Centro Servizi e l'accorpamento del Teatro Settimo potranno funzionare. Però mi sembra una possibilità" e, ancora, al fine di fare finalmente chiarezza sulla vicenda, mette a disposizione "la premessa al contratto di accorpamento del Teatro Settimo allo Stabile, perché nessun giornale ne ha parlato… Come si vedrà non c'è nessuna manovra oscura, solo il tentativo di fare una cosa utile. Sbagliato? Boh, parliamone…".

Accolgo l'invito di Gabriele Vacis a discutere dell'"annosa" questione Teatro Stabile di Torino-Teatro Settimo (che, fra l'altro, si sta trascinando da tre anni, vale a dire almeno da quando lo Stabile acquistò alcuni spettacoli originariamente prodotti dalla compagnia quali Novecento e Adriano Olivetti) esplicitando i miei dubbi e le mie preoccupazioni. In primo luogo una necessaria premessa: sono una vera "appassionata" di Teatro Settimo e dunque le mie perplessità nascono dal timore di vedere snaturata una realtà verso la quale ho sempre provato profonda ammirazione. Frequento regolarmente il Garybaldi da almeno cinque anni e le mie visite a Settimo hanno coinciso la maggior parte delle volte con sane boccate di puro teatro. E non soltanto per la particolare qualità degli spettacoli (a volte anche deludenti ma comunque scritti in un linguaggio non convenzionale) ma per l'atmosfera che si respirava. Un foyer che è anche salotto accogliente, per chiacchierare o consultare le riviste e i volumi messi a disposizione, la cucina in evidenza nel corto corridoio che conduce alla sala, un regista e gli attori che non esitano a fare le maschere o gli attrezzisti se necessario. Un teatro, insomma, dove depurarsi dell'aria stantia del Carignano, in cui anche spettacoli in qualche modo "nuovi" (le stesse "Affinità"), vengono inevitabilmente deturpati dal rituale borghese del "passare una serata a teatro", indipendente da qualsiasi considerazione estetica ed emozionale.

Teatro Settimo ha sempre rappresentato un'alternativa nel panorama torinese, in opposizione all'istituzione identificata nello Stabile. È ovvio, allora, che l'ipotesi di accorpamento susciti ansia, giustificata anche dalle recenti vicende del Teatro Stabile che non suggeriscono certo trasparenza e libertà d'azione. È forse il caso di ricordare che gli ultimi tre direttori (Davico Bonino, Lavia e appunto Castri) se ne sono andati in malo modo, arrabbiati e delusi, e che la nomina di Castri era stata accompagnata da una schiera infinita di polemiche, che avevano coinvolto Vacis stesso. Sappiamo bene quanto le ragioni della politica e dell'accorta strategia abbiano prevalso su quelle artistiche e di effettivo radicamento territoriale dello Stabile, e la sensazione è che quelle motivazioni siano ancora dominanti. La creazione di un Centro Servizi che cancelli la reale frammentazione della realtà teatrale piemontese e permetta di inserire in una struttura organica ed efficiente le numerose esperienze, più o meno innovative, di radicamento sul territorio mi pare, e non potrebbe essere altrimenti, un'ottima cosa, anche perché consentirebbe a molte piccole compagnie di non consumare tutte le proprie energie unicamente per far quadrare i conti. Si eviterebbe insomma di replicare la triste vicenda del Gruppo della Rocca. Ma proprio il fallimento di questa compagnia storica fornisce una base concreta alle mie perplessità. Lo Stabile si è certo fatto carico dei suoi debiti e ne ha acquisto l'etichetta, ma di quella ricca esperienza di teatro non è rimasto più nulla se non il nome, appunto. Vacis ha avuto vere garanzie a proposito dell'effettiva libertà d'azione di cui potrà godere allorché l'accorpamento sarà diventato realtà? Quanto le nuove produzioni potranno essere decise e realizzate in autonomia? Non sono una sostenitrice del solipsismo artistico a tutti i costi, né dello snobistico rifiuto alla collaborazione con quanto rappresenta l'istituzione, anzi sono convinta che molti dei mali del teatro italiano scomparirebbero se i teatranti dialogassero pacatamente e abitudinariamente fra di loro. I miei dubbi nascono dalle delusioni e dalle incazzature del passato e dalla consapevolezza che le logiche alla base di quei comportamenti sono ancora ben operanti. Condivido le idee e le finalità fondanti il progetto di accorpamento del Teatro Settimo al Teatro Stabile e comprendo l'esigenza di maggiori stabilità e sicurezza di una compagnia che per vent'anni ha lottato per sopravvivere e affermare la propria visione del teatro. Mi chiedo soltanto: Vacis godrà davvero di autonomia oppure sarà fagocitato del sistema che lo costringerà ad adeguarsi ai propri meccanismi? È una possibilità, certo, e il panorama sembra non offrire alternative se si vuole continuare a praticare quest'arte tanto bistrattata (benché assai praticata, quotidianamente direi, presso altre istituzioni) dalla nostra società senza cultura. Il consiglio è uno solo: vegliare costantemente e rimanere sempre padroni di sé stessi e delle proprie idee, testimoniando ai tanti appassionati che un altro teatro è possibile.
Con immutata stima e affetto,
Laura Bevione





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