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Appiattimento sul vero

di Marco Pistoia
  Margherita Buy nelle Fate ignoranti
Data di pubblicazione su web 24/04/2001  
Caro direttore,

con piacere ho aperto tempo fa il sito di "Drammaturgia", che seguo costantemente, da vecchio compagno di strada. Vorrei intervenire sul dibattito intorno al film di Moretti e, più in generale, sulla situazione critica attuale riguardo il nostro cinema.

Su La stanza del figlio il mio parere è sostanzialmente negativo, in primo luogo perché mi pare che - come già altre volte - Moretti si sia tenuto su un livello formale piattamente televisivo. Non c'è infatti quasi nessuna inquadratura, in questo film, che non sia facilmente visibile sul piccolo schermo, senza con questo accorgersi se trattasi di fiction o di cinema.

Nel bene e nel male Moretti ha sempre concepito un cinema 'da super 8', famigliare, un cinema autarchico, da 'dilettante' (talora in senso positivo). Non mi pare granché cambiata, sul piano della forma, questa sua originaria - e talora originale - indole. Moretti è spesso intelligente e acuto nel dire e nell'osservare e con Bianca, La messa è finita e Caro diario ha raggiunto il livello migliore di uno sguardo acuto su cose e persone. Ma già Aprile era un fastidioso autoriflettersi e autocompiacersi e non sapeva fare di un momento di crisi una vera crisi d'artista (come, poniamo, sapeva fare il Fellini di Intervista, per non dire di 8 e mezzo).

A mio parere quando certe crisi non sono d'artista, dunque personali, rigorose, condivisibili a vario titolo anche dal critico - sebbene non artista in senso 'proprio' - non sono veramente degne di interesse. In La stanza del figlio non c'è proprio granché per cui lodare Moretti: lo sguardo è serio ma non rigoroso, la narrazione decente ma non eccelsa, la recitazione buona per la ragazza e, in parte, per la Morante, ma nella media; le gag sui pazienti buone ma piuttosto risapute. E' tutto molto esposto, non veramente orchestrato e anche la rappresentazione del dolore non molto lontana da una media fiction televisiva. E poi cosa vuol dire "raccontare una storia vera di gente vera", come ha dichiarato Moretti dopo i David? Vera rispetto a cosa? Alla realtà? Ma non ci sono i Tg e, appunto, le fiction che vogliono essere 'vere'? Quale particolare verità interna all'opera emerge?

In realtà l'appiattimento sul vero - e non sul verosimile filmico - causa molte banalità, la più clamorosa delle quali è forse la figura della 'fidanzatina', che si potrebbe liquidare come una forzatura 'da Incantesimo'. Ma non dice, la figlia, che si sono conosciuti per un giorno? Quale - incongrua - fissazione di madre - anche nel dolore, certo - richiede la conoscenza della suddetta? Ma si potrebbe continuare a lungo.

Fatto è che proprio la cerimonia dei David e i peana diffusi ha in realtà mostrato come il cinema italiano di stagione sia alquanto privo di autentica necessità e rigore di un progetto e di uno sguardo cinematografico. Muccino - che pure mostra talora di girare e di raccontare piuttosto bene - regge poco più di mezz'ora e se qualche altro momento buono c'è è soprattutto grazie alla Mezzogiorno e alla Sandrelli. Ma in sostanza manca di un vero progetto - se non quello di compiacere i discorsi pseudo sociologici e la Miramax. Giordana fa un cinema serio e piuttosto rigoroso ma abbastanza vecchio. Continuerà a fare anche bei film, ma un cinema 'medio'. E il migliore film italiano della stagione, Le fate ignoranti di Ozpetek, è stato pressoché ignorato. Non che il turco romano sia un genio ma almeno gira, racconta e dirige attori con non poca personalità, dà respiro alle inquadrature, gioca su luci e colori, rinuncia al facile flash-back e lascia immaginare allo spettatore.

Ed è proprio la grande carenza di produzione di immaginario e di immaginazione melodrammatica (direbbe Peter Brooks) che manca in gran parte al nostro cinema. Solo Martone, oggi, ne è ampiamente dotato, anche se in questa sede non sto a dire perché (e sull'età ricordo che tra i trentadue e i quarantanni egli ha fatto tre grandi film e i corti e i video e...). E gli altri?

Prendiamo brevemente solo certi casi appunto di stagione, telegraficamente visto che la lettera sta prendendo un bel po' di spazio. Nichetti: piuttosto deludente, ma con una bella mezz'ora e altri buoni momenti e con la coerenza di chi prova a applicare tecniche nuove - il digitale - e se ne sta lontano dai cascami del neorealismo; Paolo Benvenuti: sorretto dalla Poli, ma talmente rarefatto da essere frigido e poi prevedibile!!! Interminabili piani-sequenza verbosi (i verbali del processo! Altro che Dreyer!) e poi una piccola inquadratura di raccordo e via di questo passo. Pretenzioso e messo su da critici colti e intelligenti - come Fofi - che periodicamente devono però prendere le cantonate e far credere al Benvenuti di turno di essere un nuovo Rossellini... E lui ci crede. Tavarelli: meno bello di Un amore ma sempre da seguire (Qui non è il paradiso). Non ancora visto Corsicato - in genere tra i migliori d'oggi - e in attesa, con buone speranze, di Giuseppe Bertolucci (e, perché, no? anche di Bernardo).

Infine: quando si deciderà la maggior parte dei critici dei giornali a parlare di forme - magari proprio di carenza di... - e non di trentenni in crisi e di banali pianti e di cinquantenni in gara di crisi coi trentenni e di temini e piccoli contenuti?









 
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