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Scrivere per il cinema nell'era delle soap

a cura di Filippo Bologna
  Il partigiano Johnny (Guido Chiesa, 2000)
Data di pubblicazione su web 09/07/2004  
Partiamo da una considerazione generale: la vulgata vorrebbe la scrittura nel cinema come ancillare rispetto alla fascinazione delle immagini. In realtà la drammaturgia cinematografica, dal concepimento del soggetto alla realizzazione della sceneggiatura passando per le fasi intermedie, è un processo compositivo altrettanto complesso di quello soggiacente alla rappresentazione teatrale. Quali sono a tuo avviso gli elementi di filiazione della scrittura cinematografica da quella teatrale e quali quelli di divergenza?

Devo premettere che non ho mai scritto per il teatro, e che la mia conoscenza, peraltro piuttosto frammentaria, di testi teatrali risale ai tempi della scuola e si limita pertanto allo studio di alcuni autori classici, da Shakespeare a Ibsen, per citare i primi che mi vengono in mente. Mi rendo perciò conto che la piccola riflessione a cui mi accingo potrà risultare limitata e probabilmente anche un po' rozza. Comincio dalla testa della domanda: mi sembra una visione piuttosto lontana dalla realtà del processo creativo della scrittura. La sceneggiatura è stata, da più parti e in diversi contesti, definita come una "scrittura per immagini". Non esiste cioè alcun rapporto gerarchico tra la scrittura e le immagini giacché, seppur in forma embrionale, si tratta della stessa cosa. E questa mi sembra anche la prima grande differenza tra la scrittura teatrale e quella cinematografica. Là dove il teatro si limita ad una descrizione "neutra" dell'azione (limitata cioè alla mera funzionalità della scena, chi entra in scena, quando, le azioni che compie), la sceneggiatura, attraverso la sua parte didascalica, deve necessariamente descrivere le inquadrature (cioè una selezione spietata e precisa dello spazio, del tempo e delle azioni) e suggerire anche la loro successione. Insomma, deve fare i conti con il linguaggio e con la produzione di senso che il montaggio delle inquadrature, delle sequenze e delle scene sviluppano.

Cos'hanno invece in comune la scrittura teatrale e quella cinematografica? I personaggi, o meglio, il grande lavoro necessario alla loro costruzione. Il tentativo di creare personaggi/persone attraverso un approccio psicologico che tenda a riprodurre la complessità della vita, cioè le sue incomprensibili, incontrollabili, eterne contraddizioni. Macbeth, e il Bruno Cortona de Il Sorpasso, Amleto e il protagonista di Una vita difficile. Tutti loro rappresentano, da un punto di vista drammaturgico, dei sistemi complessi nei quali la somma dei fattori tridimensionali (quello fisico, quello della loro origine sociale e quello psicologico) non dà mai un risultato logico. Altro elemento di divergenza sarebbe quello dei dialoghi, naturalistici e influenzati dalle strutture sintattiche dialettali, quelli del cinema, affettati e anacronistici (quasi una lingua morta) quelli usati in teatro. Ma non mi avventurerò in questo terreno senza il conforto di un contraddittorio.


Il sorpasso (Dino Risi, 1962)

Pensi che oggi in Italia, Paese che può vantare un'agiografia di sceneggiatori eccellenti, la questione della drammaturgia nel cinema sia sentita con la dovuta attenzione dagli autori?

Penso di sì. I notevoli progressi fatti dal nostro cinema negli ultimi quindici anni, sono la testimonianza di una ritrovata attenzione per la sceneggiatura, piuttosto disattesa negli anni precedenti, quelli in cui, fatte le dovute eccezioni, il cinema italiano era fatto o dagli Autori o da cineasti ideologicamente trash. I primi consideravano la sceneggiatura un'insopportabile limitazione alla loro creatività, i secondi obbedivano a dei modelli rigidissimi (come quelli della fiction televisiva d'oggi) e finivano per scrivere per tutta la vita lo stesso film (vedi il caso dei fratelli Vanzina).

In realtà, la sceneggiatura, se concepita in tutta la sua complessità, cioè nei suoi elementi tecnici, certo, ma anche in quelli letterari, e in quelli più inventivi e insondabili (quelli che David Mamet attribuisce all'oscuro e fondamentale lavoro della Mente Inconscia), rappresenta un importante strumento di verifica delle intenzioni degli autori (significati, senso), da una parte, ma anche del linguaggio cinematografico usato nel testo, cioè della sua possibilità di raggiungere un pubblico quanto più vasto possibile, indipendentemente dalla sua difficoltà tematica. L'occasione, insomma, per tentare di creare un racconto quanto più veritiero e coinvolgente possibile. Circa quindici anni fa, in Italia, cominciarono ad apparire film basati su testi solidi e meditati (mi piace ricordare Mery per sempre di Marco Risi come il film che per primo ha cambiato le regole del gioco) e che contenevano grandi quantità di sottotesto, cioè di materiale narrativo "non detto", non esplicitato né tanto meno enunciato, che costituisce la ricchezza "inconscia" di ogni buon film. Penso ai film di Vicari, di Crialese, di Ozpetek, tutti racconti veri e veritieri basati su copioni solidi e complessi.


Alberto Sordi
 

E' innegabile che in gran parte del cinema contemporaneo esista una certa "faciloneria drammaturgica" che porta a liquidare i copioni in modo frettoloso e con risultati infausti (leggi personaggi stereotipati privi di spessore drammaturgico, situazioni inverosimili, intrecci sgangherati). Da dove discende questa stortura?

Non si tratta di una stortura, a mio parere. Mi sembra riduttivo definire stortura il prodotto di una lotta di potere che si gioca sui copioni. Non si tratta nemmeno di "faciloneria drammaturgica". Si tratta piuttosto dell'applicazione di una ferrea ideologia narrativa, sempre più diffusa ma per fortuna non ancora totalizzante, che risponde alla logica (già ampiamente sperimentata dalla fiction televisiva) della soddisfazione delle aspettative del pubblico, cioè al marketing. Una "filosofia" che, facendo leva soprattutto sulla produzione di emozioni forti (prevalentemente legate alla commozione e al pianto, ma anche alla risata, come nelle sit-com), toglie ogni autonomia narrativa e di significato all'autore. I copioni non vengono affatto liquidati in modo frettoloso. Al contrario, viene spesso esercitato, da parte della Produzione/Distribuzione, un controllo capillare al limite della dottrina, una sorta di sorveglianza che tende, quando non obbliga d'autorità, a indirizzare il testo verso questo modello unico di racconto. Il sintomo di questa lotta è facilmente ravvisabile nella progressiva sparizione dei sottotesti. Tutto dev'essere enunciato senza sottintesi, tutto espresso in modo che sia controllabile. In questo contesto, a chi importa se gli intrecci sono poco credibili e i personaggi deboli e privi di autonomia, cioè completamente dipendenti dall'arbitrio dell'autore? Ci si limita alla cura di una formale funzionalità. E spesso funziona. Ovviamente esistono delle isole "felici" grazie alle quali il cinema è ancora in vita.


Le fate ignoranti
 

Il neorealismo si era concentrato molto sulla struttura narrativa (Ladri di biciclette è un film studiato in tutte le scuole di sceneggiatura del mondo), la commedia all'italiana aveva invece dimostrato la sapiente arte del bozzettismo: tracciare un quadro d'ambiente con poche pennellate, caratterizzare un personaggio per un dettaglio, una sfumatura dialettale. Cosa resta negli sceneggiatori contemporanei della grande eredità drammaturgica del nostro cinema?

Non so di preciso cosa resti di quella eredità. Non so nemmeno se si tratti di una vera eredità. Non posso, un po' vittimisticamente me ne rendo conto, dimenticare che stiamo parlando di una generazione di cineasti che si è sempre rifiutata di insegnare alcunché. E' vero, ci sono i film e, soprattutto, le sceneggiature, da quelle possiamo sempre imparare. Ma questa assenza che vorrei definire pedagogica, ha permesso ad altri modelli di imporsi. Nella fattispecie, la teoria drammaturgica americana (solida, stratificata, alta e gestita da un sistema didattico impeccabile) è andata a riempire quel vuoto. Perciò, nel bene e nel male, i modelli di oggi sono quelli americani.

La struttura drammatica in tre atti, la teoria dei colpi di scena (per citare gli elementi più noti della drammaturgia americana), hanno rappresentato una vera rivoluzione, ma anche il primo, autentico strumento di lavoro per chi volesse accingersi a scrivere una sceneggiatura. Tengo a sottolineare che tali elementi erano presenti in maniera attiva anche nei copioni del grande cinema italiano del passato. Mancava una coscienza teorica di questi principi, è vero, ma erano presenti come elementi spontanei e agiti del racconto. Se c'è una cosa invece di cui mi vorrei rammaricare, questa è la scomparsa della sorprendente qualità letteraria delle sceneggiature di quegli anni. Solo di recente si è acceso un nuovo interesse verso questo valore della scrittura cinematografica che non è affatto accessorio e che aveva reso unico lo "stile" della sceneggiatura italiana.


Respiro (Emanuele Crialese, 2002)

 
Si solleva spesso il problema della mancanza di coraggio da parte degli autori. Alcuni critici rilevano l'inclinazione degli autori italiani verso quella che viene definita "narrazione debole" ( piccole storie d'impronta minimalista, personaggi agiti dall'esterno), a fronte della drammaturgia anglosassone che privilegia la cosiddetta "narrazione forte" ( psicologia subordinata all'intreccio, alla spettacolarità dell'azione, personaggi risoluti e monolitici). Credi che ciò discenda da una sensibilità tutta europea per l'introspezione e le vicende esili, o dal fatto che gli autori sono troppo concentrati sul proprio ombelico da non vedere cosa gli accade attorno?

Mi viene in mente L'uomo del treno di Patrice Leconte. E mi viene in mente perché penso che si tratti di una narrazione forte, anzi, potente. Eppure si tratta di un film intimista e assai esile, almeno per quello che riguarda la struttura narrativa (non certo per quella drammatica, solidissima). E' un'inclinazione del cinema europeo questa? Mi viene ancora in mente La 25a ora di Spike Lee. Che cos'è questo film se non una lunghissima introspezione appesa ad una struttura decisamente esile? Insomma, il contenuto della domanda mi sembra una semplificazione che non corrisponde al vero. Solo la parte che riguarda gli autori italiani contiene un po' di verità. Mi chiedo allora: perché noi italiani preferiamo la "narrazione debole", il minimalismo e ci concentriamo sul nostro ombelico? Di più: che gusto ci proviamo in questa contemplazione? Non lo so. So che esiste una difficoltà nel raccontare la nostra realtà, e, a tutt'oggi, l'unico elemento che affiora e che assomiglia vagamente ad una spiegazione, è il progressivo affermarsi di un inquietante fenomeno di autocensura. L'autore italiano sa perfettamente che certi argomenti sono tabù. Il suo (nostro) stato d'animo è dominato dalla rassegnazione (chi mai vorrà produrre una storia così scabrosa? E' inutile che scrivo questa scena, tanto me la taglieranno di sicuro, ecc.) che sparge intorno a sé il seme pericolosissimo della rinuncia. Un cinema che sta perdendo, o forse che ha già perso il coraggio. Un cinema dominato sempre di più dall'ossessione per gli incassi e dalla ricerca maniacale dei modelli vincenti che ad essi conducono. Per concludere, noi vediamo bene cosa succede intorno, ma forse abbiamo paura di raccontarlo. 


Ladri di biciclette

 
La crescente domanda di fiction televisiva richiede una gran quantità di nuovi copioni da consumare sul mercato televisivo. Credi che ciò possa influire sulla qualità della scrittura cinematografica, provocando una sorta di riflesso televisivo sulla natura del linguaggio drammaturgico?

Mi sembra di aver già risposto a questa domanda. Ma forse vale la pena soffermarsi ancora un po' sugli effetti che la guerra al sottotesto sta provocando. Basta seguire per pochi minuti una fiction televisiva per rendersi conto del delirio narrativo che le genera. La prima vittima di quella tecnica drammaturgica è la logica. Sono famose le parodie (che peraltro sembrano più citazioni letterali che comiche allusioni. Penso a Beautyfull dove tutti i personaggi, senza eccezioni, sono stati almeno una volta sposati o fidanzati tra di loro) in cui i personaggi, attraverso un gioco demenziale basato su un mistero del tutto arbitrario, reinventano la loro identità di continuo (es: tu sei mio figlio! Si, ma tu non sei mio cugino!). Inoltre mi sembra impressionante il portato ideologico di questi prodotti: vi si parla ossessivamente di amore (anche di altri sentimenti, ma l'amore trionfa decisamente sugli altri). Nello spazio di una puntata, l'amore viene definito, descritto, discusso più volte e sempre con lo stesso risultato ideologico: l'amore vince su tutto. Questo modo così violento di scrivere, ha cambiato il pubblico. Così, anche per gli autori cinematografici, si pone urgentemente il problema sempre più diffuso dello scarso potenziale percettivo del pubblico che in prevalenza non è più abituato ad entrare nella storia, o meglio, non sembra più disponibile a farsi raccontare una storia, cioè a partecipare attivamente ad una struttura complessa e per niente semplificata (semplice, sì, ma non semplificata), a mettere in moto i sensi e il cervello, a fare insomma di quelle due ore nella sala buia, un'esperienza di vita. Tutti noi siamo costretti a fare i conti con questo importante cambiamento, e certo la qualità dei copioni non ci guadagna. Spesso ci sorprendiamo a commettere quello che una volta era considerato un errore capitale, spieghiamo invece di raccontare, enunciamo invece di alludere. E, quel che è peggio, avvertiamo questa forzatura come una necessità. 


L'uomo del treno (Patrice Leconte, 2002)

 
Un'ultima domanda: gli americani, combinando la narratologia con la psicanalisi, e la semiotica del testo, hanno coniato le moderne teorie di "story structure" che vanno per la maggiore. Credono insomma, che un buon film si possa costruire a tavolino osservando puntuali regole compositive. I vecchi sceneggiatori, che difendono un sapere artigianale fatto di trucchi di bottega appresi sul campo ed insegnamenti tratti della grande tradizione letteraria, sostengono che in realtà gli americani non hanno fatto altro che "destrutturare" le opere dei grandi autori greci e latini, o addirittura i nostri migliori film, per poi "rivogarceli" sotto forma di rivoluzionari codici drammaturgici. Come vedi queste due stridenti visioni della drammaturgia cinematografica?

Mi permetto di dissentire dall'assunto della domanda. Gli americani non si sono affatto limitati a destrutturare qualche classico del teatro o della letteratura. Al contrario, hanno realizzato un imponente e serissimo sistema didattico basato su uno studio molto approfondito di tutti i classici del teatro e del cinema. Non esiste una facoltà di cinema negli Stati Uniti in cui non si parta dallo studio di Aristotele e dei classici greci. Questo ha creato una grande tradizione drammaturgica. Non dimentichiamo che da queste università sono usciti registi mediocri, medi, ma anche Scorsese, Coppola, ecc. Tutti figli della stessa scuola (questo anche per sgombrare il campo dal luogo comune che paventa l'omologazione come inevitabile conseguenza di una teoria drammaturgica forte). Fin qui, nessuno ci ha rifilato niente, anzi, siamo noi che abbiamo perso un'occasione. Tutt'altro discorso dev'essere fatto per la manualistica che ha avuto un successo incredibile soprattutto in paesi come il nostro dove, appunto, mancavano e mancano le scuole. I manuali sono quasi sempre delle semplificazioni poverissime in cui vengono enunciati i Comandamenti rispettando i quali si finirà per scrivere una buona sceneggiatura. Purtroppo sono gli stessi manuali su cui si sono formate molte delle strutture produttive e distributive di oggi. In questi contesti, in Italia come in America, si pensa veramente di poter costruire un film a tavolino. E spesso si sbaglia.


 
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Il partigiano Jonny
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