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La materia di cui sono fatti i sogni

di Siro Ferrone
  Ewan McGregor
Data di pubblicazione su web 08/03/2004  
È la storia di una incomprensione e di una riconciliazione. Due uomini, un padre e un figlio, e fra di loro la differenza di culture e generazioni. Il vecchio ha vissuto mescolando fantasia e realtà, grazie a una immaginazione che dall'infanzia lo ha accompagnato fino alla vecchiaia. Il giovane è vissuto con i piedi per terra e, concreto e razionale, non crede a nessuna delle storie che il vecchio gli ha raccontato. Sono balle di un padre sorpassato, un po' arteriosclerotico, quasi un buffone. Ma poi il padre si ammala e, con paziente rassegnazione, il figlio abbandona il lavoro e, con la moglie parigina, viene ad assistere il vecchio, seguendo scettico le sue ultime creazioni fantastiche.


Big Fish
Big Fish
 
Piano piano, le immaginarie avventure tante volte ascoltate con disillusione lasciano intravedere, dietro la cosmesi di una narrazione fantastica, frammenti di verità. Il figlio scopre che il sogno è la trasfigurazione del vero: la sua più penetrante interpretazione. E alla fine, quando il padre affronta il passo supremo della morte, è lui a diventare narratore, la sua mente, il suo cuore, la sua lingua, si sciolgono. Comincia a raccontare a sua volta, tessendo una finzione tanto più necessaria e tragica quanto più - adesso davvero - è impotente. E qui scopre - dietro al "bello" - il "vero". Il fragile esercizio dell'immaginazione è l'unico antidoto al destino dei mortali, il filtro che rende vivibile la vita, che la illumina di colori accesi, di amori insensati, di generosità irrazionali, di sprechi impossibili, di vaneggiamenti fatui, di desideri irrealizzati, di giochi.

Se non sapessimo che l'autore di questo film è Tim Burton, potremmo pensare che un soggetto del genere si risolva in una commedia moralistica e sentimentale che tesse l'elogio romantico del tempo passato. Niente di tutto questo. Qui, secondo lo stile del formidabile autore americano, tutto diventa immagine. Si alternano due cromatismi: da una parte quello del sogno e della favola, luminoso come nei cartoni animati, senza ombre, magicamente elaborato con effetti speciali e filtri ottici, maquillages e raffinatezze teatrali; dall'altra, la luce ben fotografata e realistica della commedia americana, con attori verosimili e movimenti quotidiani della mdp. L'alternarsi dei due 'modi' è come il respiro che separa il giorno dalla notte, l'abbandono dalla presenza, il corpo dall'anima. E i due mondi piano piano si toccano, aderiscono in alcuni particolari, fino al momento in cui il figlio (Billy Crudup) decide di entrare, anche lui, dall'altra parte del mondo e, di fatto, eredita dal padre (Albert Finney) il compito di ingannare - nel nome del padre - la morte del corpo con la vita dell'immaginazione.

Impossibile rievocare tutti gli episodi di questo altalenare di vita e fantasia. Sublime l'episodio del circo in cui primeggia un Danny De Vito uomo-cane in una costruzione che ricorda a noi italiani il migliore Collodi (e non solo del Pinocchio); perfettamente calibrata la metamorfosi con cui Helena Bonham Carter confonde i suoi connotati di Strega con quelli dell'Amante perduta e ritrovata; malinconico come un paese abbandonato da Alice il Villaggio dolce e immutabile in cui il padre, ancora giovane, corre il rischio di rimanere intrappolato. E così via, tante stazioni di luoghi non-luoghi (etimologicamente: utopie) della vita, trasfigurazioni o trascendenze visionarie di paesaggi reali. Un esercizio filmico che è insieme ingenuo e raffinatissimo, debitore sicuramente nei confronti del Fellini più fantasmagorico, popolato da attori che non fanno nessun sforzo per apparire reali, ma che al contrario fanno di tutto per apparire felicemente immaginari. Tranne il figlio, il corifeo di noi spettatori, che però alla fine cede scoprendo, nel momento in cui vede la morte sul corpo del padre, la vittoria del cinema.

Big Fish
Big Fish


La maschera virile e buffonesca del grande attore inglese Albert Finney è quasi una reincarnazione di Falstaff. Più grottesco che autorevole, canta a suo modo l'effimera e fragile vittoria della favola. Non è un superuomo, ma un trombone, un guitto il cui respiro e le cui parole valgono meno della fiamma di una candela sotto il soffio del vento. Eppure le sue "creature" sono leggiadre e perfette, incredibilmente durevoli. Perché - come insegna sempre Shakespeare - sono fatte, grazie alla luce impressa sulla pellicola proiettata nella sala buia del cinema - della "materia di cui sono fatti i sogni". Un piccolo capolavoro.

 


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