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La persecuzione sul lavoro fra suspense e docu-drama

di Sandro Bernardi
  la locandina del film
Data di pubblicazione su web 10/02/2004  
Anna è una ragazza madre ancora giovane che lavora un una grande azienda di Roma. Ha una bambina di circa otto anni che si chiama Morgana, va a scuola e fa danza, il padre malato e ricoverato in un ospizio. La sua singolarità è di essere una donna comune, una persona sola; solo in ditta ha ottimi rapporti con tutti, fornitori e colleghi ma, anche se questi la invitano a qualche serata in compagnia, lei sempre gentilmente rifiuta adducendo come pretesto la bambina, che sembra essere la sua unica ragione di vita. Il film inizia con una festa in ditta, atmosfera tesa, tutti si guardano come aspettando qualche guaio: in effetti è stata annunciata una fusione e la festa serve per accogliere un "consulente" organizzativo che ha il compito di "razionalizzare", come si dice oggi, o di "ottimizzare" la produzione, cioè di licenziare. In pochi giorni Anna vede completamente scardinato il suo lavoro che svolgeva con cortesia e buonumore. I problemi cominciano quando sparisce un blocchetto di ricevute. Le colleghe-amiche non ne sanno niente, e solo andando a protestare dal nuovo manager del personale, scoprirà che è stata sostituita senza avvertimento.

Il nuovo "consulente" la tratta sempre in modo scortese, per non dire villano: quando Anna si concede un vestito un poco più elegante, consigliato dalla figlia, questi le chiede: "Ma lei viene al lavoro in pigiama?" La giacca nuova, costata tanti euro che un bel primo piano ha dolorosamente messo in evidenza, naturalmente finisce nella spazzatura, con grave compromissione anche dei rapporti con Morgana, che se ne accorge e rimane offesa dalla madre. In effetti, Anna è sempre di più immersa nel lavoro, tesa alla conservazione di quell'impiego che sembra sfuggirle, e trascura la figlia, lasciandola spesso da sola in casa. L'atmosfera degli uffici intanto degenera rapidamente in una situazione da impercettibile incubo; non succede niente e succede tutto, non si saprebbe dire esattamente in che guaio si sia cacciata Anna, ma l'ambiente è cambiato: le amiche di prima sono sparite, non se ne sa niente, al loro posto subentrano colleghi sempre più formali e distanti, addirittura malevoli. Le riunioni e convocazioni sono sempre più improvvise, senza ragione, a ore impossibili.

Intanto Morgana si trova sempre più sola per le strade di Roma. Ma la ragazzina, invece di correre pericoli, sulla strada incontra nuovi amici affettuosi e disinteressati: un suonatore di xilofono ambulante, che staziona sotto i portici e le insegna a suonare, dei bambini neri l'aiutano a fare la spesa e diventano presto nuovi amici. Intanto, poco a poco, in ufficio, Anna viene relegata a mansioni sempre più umili e degradanti, che la isolano anche dal contesto sociale dell'azienda, come se un misterioso incidente l'avesse resa odiosa o colpevole di qualche infamia. Bisogna dire che questa donna, interpretata da Nicoletta Braschi (la quale probabilmente ci mette un poco di suo), non è affatto simpatica: è una donna triste e insignificante, ma questo ci fa soffrire anche di più, come se un'oscura persecuzione si appuntasse contro una persona comunissima. Viene messa a custodire un imponente archivio, dove prima non c'era nessuno e non occorre nessuno, poi viene relegata a fare fotocopie, privata della scrivania, lasciata in corridoio a sedere e infine, ultima fase di questa persecuzione senza volto, verrà incaricata di un compito imbarazzante come controllare il lavoro dei magazzinieri, che sono tutti uomini, svolgono un lavoro pesante, e non gradiscono controlli. L'accoglienza decisamente sgradevole di questi uomini - viene considerata una spia - finisce di straziarla. Anna cerca di difendere il suo posto di lavoro come può, ma il morale poco a poco s'incrina. Il sonno diventa sempre più leggero, la stanchezza e la confusione mentale aumentano, in una progressione hitchcockiana. Quando Anna, in una bella sequenza quasi poliziesca, trova la fattura che le veniva chiesta con tanta insistenza nella scrivania del "consulente" stesso, accuratamente nascosta, capisce l'esistenza di un complotto. Come Rebecca, perseguitata da un'ombra ignota, la donna poco a poco cede. Di che cosa si tratta?

Ecco allora la spiegazione, anche questa molto hitchcockiana (tutti ricordiamo il finale di Psycho). La strategia si chiama mobbing ed è un sistema di tortura psicologica per disincentivare dal lavoro i dipendenti che una ditta vorrebbe licenziare ma non può per mancanza di motivi. Si fa in modo da mettere il lavoratore in difficoltà crescenti, si rende l'atmosfera intollerabile, facendo in modo che la persona in questione si senta inadatta al lavoro o incapace di sostenere i nuovi ritmi. La strategia si applica naturalmente a coloro che sono particolarmente protetti dalla legislazione, sperando in un crollo psichico.

Informata da una sindacalista, Anna intenta causa per mobbing, la vince e se ne parte dalla ditta con un forte risarcimento, ma si tratta davvero di una vittoria?

Il suo morale e il suo senso di identità ne escono decisamente incrinati, Anna non sarà più quella di prima, non lavorerà più con sicurezza, ma sempre con ansia e in paurosa attesa che l'incubo ricominci. La vediamo partire per una breve vacanza con la piccola Morgana, che nello spazio di pochi giorni è diventata grande.

Ben raccontato e splendidamente girato (tutta una magnifica camera a mano di Luca Bigazzi) questo film è anche costato poco, esempio del fatto che i denari, e forse anche i buoni attori, non sono indispensabili per fare dei buoni film, ma occorre invece sapere dove puntare la cinepresa e come muoverla. Mi piace lavorare è un film molto giovane, vivo e duro, tutto giocato sulle riprese, che mescola in maniera geniale due generi molto differenti: il film a suspense psicologica di matrice hitchcockiana e il docu-drama sociale alla Ken Loach, due nature completamente differenti, anzi del tutto opposte. Com'è possibile? Vedere per credere. Tutto macchina a mano, come nelle sequenze più drammatiche di Loach, il film racconta una storia quotidiana e un mondo quotidiano come se fosse un incubo, e descrive dei comuni uffici amministrativi come un mondo sinistro popolato di fantasmi, ombre di personaggi, che assediano la protagonista come in un orribile sogno. Così, tutto quello che vediamo è una finzione, eppure niente di quello che si racconta è una finzione.


Mi piace lavorare (Mobbing)
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