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Vedere Muccino a New York. La ricerca della maturità

Cara redazione,
dopo Leggere Lolita a Teheran, potrei azzardare un Vedere Muccino a New York, dove appunto, tra gli sbadigli dei pochi americani presenti in sala (ma va detto per dover di cronaca che il film è agli sgoccioli ed è andato fortissimo in America), in un cinemino di Brooklyn mi sono imbattuto nel film del nostro connazionale. Al ritorno sul suolo patrio, ho letto la recensione di Valentina d'Amico sull'ultimo Muccino. Devo dire che dissento molto dalle illustri ascendenze in Risi e Monicelli che l'autrice della recensione rinviene nel rampante regista romano.

La cifra stilistica di Monicelli, si sa, è un humor caustico, spesso feroce e macabro, un ghigno sinistro che lascia sulla bocca la smorfia agra dell'italiano che strozza in gola la risata quando si rende conto che sta ridendo di se stesso. In fondo stiamo parlando dello stesso uomo che auspica la solerte morte di De Oliveira per divenire il decano incontrastato del cinema mondiale.

Risi invece è un fine psicologo. Ha la lucidità dello psichiatra mancato e il cinismo aristocratico del dandy. L'unico film di Risi che può essere "vagamente" apparentato con La ricerca della felicità è semmai Il giovedì, dimenticata e altrettanto delicata commedia all'italiana con un tenero Walter Chiari nei panni di un padre assente che finisce per diventare complicemente figlio del figlio. In fondo stiamo parlando dello stesso uomo che ha definito il cinema "qualcosa a metà tra un l'orologeria e la tratta delle bianche".

Muccino non ha né la cattiveria né l'intenzione di raschiare il fondo dell'animo umano, come i grandi maestri della commedia all'italiana non si sono vergognati di fare. Semmai, ecco, e questo è il solo punto in cui concordo, nel cantare l'elegia dell'american dream (sempre e comunque validata dall'immancabile happy end) Muccino si candida ad essere il Capra dei Parioli. E non basta mostrare la pletora di diseredati in fila davanti alla mensa della Caritas per portare una critica credibile alla società americana. Vedere semmai, o rivedere, Wall Street di Oliver Stone, film di una cattiveria anni Ottanta - oggi del tutto impensabile - per rendersi conto di come si possa fare critica spietata alla società americana anche dall'interno degli studios. A parte un po' di Zavattini a sprazzi, tanto per pagare l'obolo ai maestri, se una bicicletta vale uno scanner medico, Muccino non vale De Sica e non vedo altre genealogie cinematografiche. Sì, va bene, la solita colonna sonora onnipervasiva, un po' più composto, meno stiloso, meno isterico e - finalmente - generazionale del solito. Più la ricerca della maturità (del regista) che non quella della felicità (dello spettatore). Se non avessi saputo che il film era di Muccino, avrei detto, che era di Muccino.

Cordialmente,

Filippo Bologna

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